Text by Emanuele Giordana

I bricchi del te di latta azzurra o verde con cui si serviva, e raramente ancora si serve, il te verde che piace agli afgani (e che viene dallo Sri Lanka), sono uno dei tanti ricordi del (bel) tempo che fu.

Se dieci anni fa cominciava l’odissea dell’ennesima guerra afgana, ricordata nel 2011 con poche fanfare come si deve ai grandi insuccessi, trent’anni fa – fino al 1979 – l’Afghanistan era davvero una terra fiera e felice e gli anni Settanta furono effettivamente l’età dell’oro, nonostante una monarchia scarsamente illuminata e una borghesia tanto poco lungimirante da non riuscire a prevedere che, questa volta, il Grande Gioco sarebbe finito male soprattutto per gli afgani.

Dopo trent’anni di guerra, l’Afghanistan è il Paese sfilacciato e drammatico che emerge dagli scatti di Francesco Fossa, che restituiscono un sottofondo drammatico che nemmeno gli ampi e struggenti paesaggi dell’Hindukush riescono a nascondere e a domare.

Allo sguardo di noi occidentali, così attenti a contare quanti burqa in meno circolano a Kabul e quanti edifici in vetro e acciaio ornano adesso la capitale, questa drammaticità di fondo generalmente sfugge, ottenebrata dalle immagini onnipresenti dei soldati: aitanti marziani in mimetica onnipresenti nei reportage e nelle immagini della tv.

Sfugge soprattutto la sistematica distruzione di un forte senso dell’umorismo che era (in parte ancora è) il tratto distintivo di questa popolazione.

Sei lustri di guerra sono riusciti in gran parte a far brandelli di questo talento, un piacevole modo di ridere del mondo e di sé sessi e un’ironia che con una lunga guerra c’entra poco e che di una lunga stagione di morte non riesce più, se non di rado, ad avere ragione. Rimane così quel velo maledetto di tristezza drammatica che ottunde la nobilissima arte del riso e del sorriso. Questo è ciò che resta in mano agli afgani oggi, vittime anche delle nostre promesse. E del nostro serioso sguardo su un mondo che ci è ancora sconosciuto.