Ci sono cresciuto con le foto di mio nonno. Immagini di oasi africane che si specchiavano in cimeli esotici appesi alle pareti di una casa di montagna: lance, spade, monili e una pelle di leopardo con tanto di testa ringhiante. Tutto questo traduceva nel mio vocabolario di bambino la parola Libya. Poco altro conoscevo di quel periodo che nonno Manfredo trascorse in Africa a metà degli anni trenta. Mia nonna Alberta ne parlava con parsimonia. Sempre silenziosamente rispettosa di quel marito vissuto poco, morto ad appena 33 anni nel dicembre del 1940 sulle montagne tra Grecia ed Albania. Era un alpino della Divisione Julia il nonno. Un militare che amava la fotografia, il viaggio e l’avventura. E così – per fotografare e viaggiare – si fece osservatore aereo e nel ’33 con un biplano della Regia Aviazione finisce in Cirenaica, nella sperduta oasi di Cufra, macchia di palme incuneata tra l’Egitto e il Sudan. Per anni ho chiesto a mia nonna se esistevano stampe o negativi ancora inediti, senza mai ottenere risposta, quasi volesse preservare un segreto.
Poi, negli anni duemila, Cufra diventa un luogo di tenebra raccontato dalle cronache, crocevia delle carovaniere di profughi in marcia verso le sponde del Mediterraneo. Una sera d’estate del 2006 recupero dal fondo di una vecchia cassapanca una scatola di legno. Aprirla è un’emozione enorme: dentro ben ordinati in una grata, una decina di rullini perfettamente conservati. Tante foto di famiglia, alcune delle immagini che avevo visto appese alle pareti e moltissime altre inedite, mai stampate. La pagina della Libya si arricchiva così di spunti che raccontavano altro: auto nella sabbia, meccanici imbrattati di olio e bruciati dal sole, aerei pronti al decollo nel deserto, pitture rupestri, carovane di cammelli dirette chissà dove. Immagini sulle quali le poche lettere spedite a mia nonna, fitte di amore e preoccupazioni familiari, non aiutavano a fare luce. L’unico dettaglio noto in famiglia è che alcune foto scattate dal nonno e raffiguranti disegni e graffiti rupestri erano state richieste al rientro dalla sua missione in Libya da un famoso paleontologo dell’epoca, il professor Graziosi di Firenze. A guerra finita mia nonna provò a riaverle indietro, inutilmente.
Fatta quella scoperta, un anno dopo, in aprile riesco a partire per la Libya. Volevo raggiungere Cufra. Mi unisco così a una piccola spedizione di appassionati di dune e di deserto. L’obiettivo sfugge però già in partenza. Attraversare la fitta sequenza di dune del Murzuk in direzione sud ovest fu impossibile. Una tempesta di sabbia non dava tregua da quasi un mese. Il gruppo di fuoristrada virò più a nord verso il deserto dell’Ubari, la zona dei laghi e poi verso il Merideth, una striscia di territorio lunare che fiancheggia il confine algerino. Cufra, mio nonno, le sue foto, i camion stracarichi di profughi erano ormai lontani, lasciati alle spalle – a est- nella lontana Cirenaica. Il deserto, la Libya, aveva preso il sopravvento. Feci il mio viaggio, la mia scoperta, scattai le mie foto. Con una lettura che seguì un registro di architetture, reali e immaginarie: le dune e le rocce del deserto, Gadames (la città sotterranea dei Tuareg), le rovine romane di Sabrata e – unica presenza umana che ritorna – la guida, i suoi aiutanti, l’autista della mia Toyota e le poche persone che in qualche modo mi avevano aiutato durante il viaggio.
Non ebbi però il tempo di metabolizzare il lavoro. Qualche settimana dopo, durante un trasloco, accade l’irreparabile: smarrisco i negativi del nonno e pure i miei. La disperazione fu totale. Immaginai una sorta di maledizione planata su quella vicenda, fatti che dovevano restare nascosti, quasi su questa storia io non dovessi fare luce. Cercai ovunque ma dei negativi nessuna traccia.
A un certo punto nella trama di questa storia compaiono però due studiosi, appassionati di esplorazioni nel deserto e di storia militare – Michele Soffiantini e Alessandro Menardi Noguera – interessati alle missioni italiane in quel lembo di deserto oltre l’oasi di Cufra che ruota attorno al massiccio dell’Auenàt. Spedizioni effettuate negli anni ’30 che avevano ragioni scientifiche e al contempo militari, in una fase strategica dei rapporti per la definizione dei confini tra Libya, Egitto e Sudan. Mi dicono che il nome del tenente Manfredo Tarabini – mio nonno – compare di frequente anche negli archivi inglesi. Sanno che ha seguito la spedizione del glaciologo Umberto Mònterin nella primavera del 1934, diventando poi comandante di un minuscolo e sperduto avamposto nel mare di sabbia e rocce dell’Auenàt, ultima pista d’atterraggio e ultima fonte d’acqua verso l’Etiopia e l’Eritrea. Una terra battuta in quel periodo in lungo e in largo anche dal conte Laszlo Almàzy, meglio conosciuto come il Paziente Inglese: un esploratore ungherese, personaggio enigmatico, forse spia, figura tra le più affascinanti nelle vicende nord africane a cavallo della seconda Guerra Mondiale. Nonno in almeno due diverse occasioni incontrò Almàzy, a Cufra e nella piccola base di Auenat.
Menardi e Soffiantini cercano documenti. Quando mostro loro una foto di mio nonno davanti ad una cippo di confine tra Lybia e Sudan saltano dalla gioia. E’ la testimonianza che andavano cercando, una delle rare immagini che racconta gli accordi tra italiani e inglesi con i quali si stabiliva dove finiva la Cirenaica e cominciava il Sudan anglo-egiziano.
Anche io esulto quando – trascorsi altri anni – ritrovo i negativi del mio viaggio in Libya e la maggior parte di quelli del nonno. Ricomponendoli mi accorgo che i binari si uniscono finalmente. Le foto di Manfredo, le mie. I luoghi: i suoi e i miei. Piste di sabbia che appaiono e scompaiono. Il tempo che divide e a volte unisce. Di mio nonno sapevo poco o nulla, ora quasi riesco a sentirne la voce vibrare fuori dai commenti che Manfredo lasciava sul retro delle stampe o su album fitti di provini a contatto. Le sue foto, le mie.
Foto diverse, letture così lontane nel tempo mi appaiono ora in perfetta sintonia. Mostrano una traccia unica fissata dalla memoria familiare, proiettando l’immagine di un mondo dove tutto è immobile e al contempo mutevole. Esattamente come questa storia che scompare e riemerge nella mia vita come una duna, una storia impossibile da arginare e che ha ancora molto da dire.